NFL: Doug Martin, la corsa si ferma a 36 anni e la famiglia accusa la polizia

Dalla gloria in NFL al dramma umano: la leggenda dei Buccanners è morto all’età di 36 anni, ma è giallo sulla sua scomparsa.

Bandera degli Stati Uniti d'America
Bandera degli Stati Uniti d’America

C’è dolore, rabbia e sgomento dietro la morte di Doug Martin, ex stella NFL e volto simbolo dei Tampa Bay Buccaneers negli anni 2010. Aveva solo 36 anni, l’ex running back, due volte Pro Bowler, è morto in seguito a un intervento della polizia a Oakland, in California, dopo una colluttazione avvenuta durante un tentativo di fermo. La dinamica, ancora oggetto d’indagine, si è trasformata in tragedia. Secondo quanto riportato dalle autorità locali e confermato da AP News ed ESPN, gli agenti erano intervenuti per una segnalazione di effrazione in un’abitazione. Martin, in evidente stato di confusione, sarebbe stato trovato all’interno della casa — non la sua — e avrebbe reagito mentre veniva bloccato. Pochi minuti dopo, avrebbe perso conoscenza. Inutile la corsa in ospedale: è morto poco dopo l’arrivo dei soccorsi.

“La malattia mentale è stato il suo avversario più duro”

La famiglia dell’ex giocatore ha diffuso una nota durissima: “Doug stava lottando con problemi di salute mentale, e stavamo cercando aiuto medico per lui. Non era un criminale, era un uomo che soffriva”. Parole che gettano una luce dolorosa sul dramma di un atleta che aveva conosciuto la gloria, ma anche le ombre. Martin aveva chiuso la carriera NFL nel 2018, dopo sei stagioni a Tampa e un’ultima esperienza con gli Oakland Raiders. Era stato scelto al primo giro del Draft 2012 e da rookie aveva incantato l’America: 1.454 yard corse, 11 touchdown e la convocazione al Pro Bowl. Tre anni dopo, la consacrazione definitiva con la selezione All-Pro. La sua potenza esplosiva gli valse il soprannome di Muscle Hamster, un misto di ironia e ammirazione per quel corpo compatto capace di fendere le difese come un ariete. Nel pieno della sua carriera, era considerato tra i migliori running back della lega. Poi, gli infortuni, le sospensioni e la battaglia con la depressione.

Il lato oscuro della gloria

Negli ultimi anni, Doug Martin aveva provato a rimettere insieme i pezzi. Viveva in California, lontano dai riflettori, impegnato in attività di beneficenza e nel supporto a giovani atleti e chi lo conosceva parla di un uomo “profondo, gentile, ma stanco dentro”. La sua fine riapre il dibattito sulla salute mentale degli atleti, spesso lasciati soli una volta spenti i riflettori. Negli Stati Uniti, il tema è sempre più al centro del dibattito sportivo dopo casi come quelli di Junior Seau o Vincent Jackson, anch’essi ex NFL morti tragicamente dopo il ritiro.

Un ricordo che va oltre il campo

Sul campo Martin aveva lasciato il segno: 5.356 yard corse, 30 touchdown e oltre 1.200 yard ricevute in carriera. Ma il suo lascito va oltre le statistiche. È la storia di un talento che ha corso più veloce di chiunque altro, finché la vita non l’ha fermato. Dai compagni di squadra agli allenatori, il cordoglio è unanime. “Doug era un guerriero, ma soprattutto un uomo buono”, ha scritto l’ex coach Dirk Koetter. “Speriamo che la sua morte serva a ricordare quanto sia importante chiedere aiuto.”

L’ultimo messaggio di Doug Martin

Nel suo ultimo post sui social, poche settimane fa, Martin aveva scritto: “Non tutti i giorni sono vittorie, ma ogni giorno è un’occasione per rialzarsi.” Una frase che oggi suona come un addio amaro, ma anche come un testamento di forza. La NFL lo ricorderà per i suoi sprint, i suoi touchdown e il suo sorriso dopo ogni placcaggio. Ma chi lo ha conosciuto, lo ricorderà soprattutto come un ragazzo che ha provato a combattere e che merita di essere ricordato non per come è morto, ma per tutto ciò che ha dato.

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