Ora tocca a lui: Paul Pogba sfoglia la margherita sapendo che il peggio è alle spalle: scontata la squalifica per doping, risolto il contratto con la Juve il centrocampista è pronto per tornare a giocare e deve solo scegliere dove (“Oggi ci sono proposte. Arrivano da ogni dove. Anche dall’Europa? Da ogni dove. Voglio vedere cosa mi si addice di più. Perché sono in un periodo cruciale della mia vita e della mia carriera. È una decisione che prenderò il tempo di soppesare”). Il giocatore si confessa a Gq ripercorre la sua carriera.
A 18 anni era già un fenomeno: “Quando sono arrivato in Italia, mi chiamavano Balotelli. Avevo già il mohawk, le tinte, i balli celebrativi, ma anche i movimenti tecnici e tutto ciò che ne consegue. È la mia personalità, ho imparato il calcio così, per strada. In quella squadra, c’era spazio per esprimermi in modo diverso”.
Venduto al Manchester United (da cui la Juve lo aveva preso grats) per 110 milioni, Pogba in Premier ha vissuto momenti difficili: “Sono caduto in depressione senza nemmeno rendermene conto. Perché nessuno ci insegna cosa sia la depressione. Finché non ho iniziato ad avere buchi nel cuoio capelluto. Non capivo cosa fosse. Mi hanno detto che era stress.”
Altro dramma l’estorsione subita: “In quel periodo ho fatto tutto il possibile per restare concentrato sul calcio, ma è diventato troppo difficile. Avevo così tante preoccupazioni che ho smesso di giocare. Eppure ci ho provato. Sapevo che era l’unico modo per farmi dimenticare questi problemi. Ma in realtà, cosa rappresenta il calcio? Due ore al giorno? Solo due ore al giorno per divertirmi. Ogni volta che finiva, cercavo di gironzolare nello spogliatoio, di stare con i miei compagni di squadra. Ma alla fine, devi tornare a casa. Mi chiedevo quando sarebbe finito tutto. Ha avuto un impatto sul mio corpo. Ecco perché non potevo tornare indietro.”
Il rientro alla Juve è stato un calvario continuo, prima gli infortuni in serie poi la squalifica: “Se ci avessi messo quattro anni, avrei smesso di giocare a calcio. Non volevo dirlo pubblicamente, ma è quello che pensavo. Non ho capito. Perché? Mi hanno dato la pena massima, il che significa che non avevano davvero ascoltato nulla di quello che avevo detto loro. Prendevo la palla e giocavo da solo fuori. Mi arrangiavo con quello che avevo. Ma non volevo restare a Torino. La mattina portavo i miei figli a scuola, ed era proprio accanto al campo di allenamento, che sofferenza”.
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